Blog di avventure

“...let's step into the night and pursue that flighty temptress, adventure....”

Lo spirito avventuroso ti porta a conoscere l’ignoto, i segreti e posti nascosti. Passo dopo passo, aereo dopo aereo, nave dopo nave, “casa” sarà sempre più lontana, stare sulla scrivania a studiare i sentieri, percorsi e le mappe è solo l’inizio, dopo il primo passo fuori dalla porta, lo spirito avventuroso ti avvolge in un misterioso abbraccio. Pronti per un nuovo viaggio, scoperte e persone, una nuova parte del mondo sta aspettando ed un’altra esperienza di vita sta per raggiungerti, quindi, prepara il tuo corpo, libera la tua anima e che l’avventura abbia inizio!

all The adventures

Dalla Groenlandia al Kilimanjaro, passando dal Monte Elbrus, Isole Lofoten, l’Oman e le Svalbard

OMAN

…the desert tells a different story every time one ventures on it…

Il profumo di incenso entra nei polmoni, accarezza la pelle e ristagna nella mente. I giochi di luce che il fumo crea, tra i vicoli di case costruite con mattoni color sabbia ed antichi forti aventi memorie di un passato glorioso, rendono l’atmosfera ancora più magica. È la stessa magia che rimane impressa negli occhi quando vedi i negozianti porgere frutta secca per un assaggio o una manciata di spezie per insaporire le pietanze, oppure ancora quando gli olii profumati vengono sparsi nell’ambiente usando preziosi dispensatori con candele o carboncini. Il souq è un posto variopinto dove poter respirare l’Oman, è un modo per entrare in contatto con la cultura Omanita e per capire questo popolo.
È allora via per questa nuova avventura in Oman, fatta di strade, paesini, souq, deserti, montagne e storia.
L’aereo atterra a Mascate o Muscat, capitale dell’Oman. E’ una città di medie dimensioni, pulitissima dove si cammina spesso in pavimenti lastricati di pregiati marmi, mentre si osservano le persone in strada attraverso vetri colorati e cancelli in ferro battuto con complicati motivi ornamentali. Giusto il tempo di visitare la grande moschea, che si raggiunge la Royal Opera Hous e. E’ uno degli edifici principali di Muscat, inaugurata nel 2011 dal Sultano Qaboos, appassionatissimo di musica classica ed opera. Lo sfarzo che si trova al suo interno è stupefacente: marmo e fontane pregiate incastonati in strutture di legno.
Cala il sole, dagli altoparlanti dei minareti delle moschee, il muezzin comincia a cantare le preghiere, la città rallenta e si fa sera.
L’indomani si accendono i motori della Jeep 4×4 con destinazione, deserto, passando anche attraverso molteplici paesini e oasi.
La strada che da Muscat porta a Sharqiya Sands è un serpente che si snoda tra piccole montagne rocciose e paesini inseriti tra di esse. Facendo delle pause nelle poche aree di servizio, si può capire quanto questo popolo sia maniaco della pulizia e quanto sia gentile. Sempre pronti a porgere un sorriso ed ad aiutare con indicazioni o consigli. È veramente piacevole passare le ore lungo la strada cogliendo il cambiamento del panorama, da un ambiente marittimo ad uno completamente desertico. I primi cammelli cominciano a farsi vedere con le loro gobbe ed il collo lungo intento a raccogliere i frutti di piccoli alberi in mezzo al nulla. La temperatura sale fino ai 35 gradi e, in lontananza, si intravede una macchia giallognola che disegna all’orizzonte curve fantasiose modellate dal vento, il deserto.
La Jeep si comporta benissimo e si segue una pista battuta lungo la piana che fa da apripista alle dune, la sabbia comincia a colorare la macchina mentre ci si addentra per circa un’ora all’interno di questa landa desolata ma, nello stesso tempo, piena di vita.
Si sistemano i bagagli in una tenda già allestita, e, dopo un’ottima merenda con datteri, banane e succo di frutta, ecco che le dune sono pronte per essere calpestate. Camminare nel deserto è complicato in quanto si fanno due passi avanti ed uno indietro, ma la sensazioni dei piedi nudi sulla dura sabbia resa umida dalla fredda notte è veramente caratteristica. Camminare nel silenzio assoluto, vedere in lontananza cammelli al passo lento regolare, osservare il sole al tramonto che crea magnifici giochi di luce facendo risaltare, come brillanti, i granelli di sabbia, è magnifico.
La sera è giunta: il quarto di Luna sorge all’orizzonte e le prime stelle cominciano a farsi vedere insieme a Venere. Il buio abbraccia tutto quanto e la temperatura scende repentinamente. La t-shirt estiva ed i pantaloncini sono sostituiti da più pesanti pantaloni lunghi da trekking e giacca a vento. La sabbia diventa bagnata a causa della forte umidità della sera e la luce della frontale è l’unica illuminazione. Beh, la luce è meglio tenerla spenta in quanto è la costellazione di Orione a farsi bella con la sua spada e la sua cintura. E’ molto rilassante stare con il naso all’insù a vedere un cielo nero con puntini bianchi ascoltando il vento che modella le dune creando nuove forme che si vedranno solo l’indomani.
Si osserva, nello specchietto retrovisore della macchina, la scia di polvere che danza sul vetro via via che il deserto si fa lontano. La direzione è nord – ovest verso la vecchia capitale dell’Oman, Nizwa. La superstrada a 4 corsie che taglia in due il paese fa capire quanto le infrastrutture sono sviluppate cosi come la predisposizione di questa nazione al turismo. Dopo qualche ora di arbusti, cammelli e sole cocente, si entra nelle antiche porte della città. Nizwa è stata capitale tra il sesto ed il settimo secolo e nel 2015 è divenuta capitale della cultura Islamica. Essendo l’antica capitale, è affascinante il patrimonio storico che conserva, su tutto, il seicentesco forte. Vale la pena di entrare ad assaporare la vita delle persone a quei tempi. Dalle cucine, alle camere, dai passaggi segreti ai giardini lussureggianti , passando per le prigioni, la visita al forte è, da un punto di vista storico, veramente notevole. Speciale è anche la vista che si può godere in cima alla grossa torre cilindrica di tutta la città con le sue moschee e le montagne che la abbracciano. Già da lì si può sentire il trambusto e le urla dei venditori nel souq della città. E’ l’ora dei profumi, di passare attraverso la nebbia di incenso che rende i vicoletti misteriosi e magici, di contrattare e di lasciarsi stupire dalle meraviglie Arabe. Ci si sente molto il principe Alì del cartone Aladdin, si rimane meravigliati, passando davanti a ogni negozietto, dalla quantità di mercanzia che offre. La meraviglia ancora più grande è il fermarsi ad ascoltare i venditori che raccontano orgogliosi, gli aneddoti e le curiosità di ciascun pezzo esposto. All’interno del Suq è obbligatorio perdersi di proposito: tutti i vicoli sono uguali tra loro ed è facile perdere l’orientamento. Anche lo stare fermi ad osservare la danza dei compratori-venditori è uno spettacolo che lascia divertiti e basiti dal vedere – sembra che conoscano tutte le lingue del mondo!
Il tramonto comincia a colorare i minareti delle moschee di arancione e, dalle proprie cime, gli altoparlanti intonano la preghiera, le luci calde e giallognole della città si accendono ed essa acquista un altro fascino. Gli abitanti, vestiti con abiti dai colori molto accessi, invadono le strade e la piazza principale mentre i piccoli ristoranti si preparano per la cena e la shisha. Lentamente, di fronte ad una succulenta cena con piatti tipici come il Majboos fatto di riso allo zafferano con carne, arriva l’ora di andare a dormire con ancora nelle narici il profumo di acqua di rose e nella mente i sorrisi degli abitanti con i quali si è scambiata qualche parola.
La strada si inerpica attraverso burroni e gole, l’asfalto ha lasciato il posto ad una pista sterrata che permette di salire al massimo ai 15-20 km/h. Il Canyon, Wadi Ghul, con le sue crepe tra le rocce e ripidi pendii, attende l’avventuriero con i suoi drammatici panorami e le sue vette frastagliate. Sono le montagne più alte della Penisola Araba con i suoi 3000 metri e sono il divertimento degli astronomi e a chi piace fare hiking. Il caldo sole del mare viene sostituito da fuoco scoppiettante in un cerchio di pietre, del resto, è pur sempre inverno.
Il sentiero scende nelle gole come un lungo serpente che si snoda tra le rocce ed i burroni, la base profonda del canyon è già in penombra mentre il sole, con i colori caldi del tramonto, accarezza le cime frastagliate delle montagne tutt’intorno. La temperatura scende e le ombre lunghe della sera cominciano a seguire il cammino verso l’obiettivo: un antico villaggio abbandonato raggiungibile solamente a piedi. Le case fatte di pietra e fango fanno fare un tuffo nel passato, la cucina al centro col fuoco e le piccole camerette creano l’immagine mentale di come doveva essere vivere in quelle condizioni, letteralmente sul bordo del canyon. Una piccola torre troneggia all’inizio del villaggio mentre tutte le case sono costruite attaccate alla dura pietra della montagna per proteggerle dalle intemperie.
Non è possibile rientrare se prima non si è chiacchierato con la gentile popolazione locale fatta di pastori con il loro piccolo tesoro di animali che pascolano in queste incontaminate lande rocciose. Dopo una breve conversazione è chiaro quanto la vita cosi in cima senza nessun genere di infrastrutture sia difficile e quanto, i loro animali, siano veramente l’unica fonte di sopravvivenza e, probabilmente, di guadagno.
È tempo di ripercorre in discesa la strada dell’andata con ancora nella mente e nel cuore i magnifici angoli, panorami e gli occhi delle persone incontrati, all’orizzonte si intravede di nuovo il deserto, compagno di tanti silenzi, avvicinandosi a Muscat, le forme dei minareti delle moschee si fanno sempre più nitide. Il canto dei muezzin accompagna per le strade mentre i profumi di incenso e mirra avvolgono nuovamente il corpo e la mente.

Ne è valsa veramente la pena!

Lofoten islands

…Mountains and Arctic Ocean…

Credo che questa storia sia iniziata circa quindici anni fa, quanto, da adolescenti, giocavamo in una piccola, e spesso perdente, squadra di basket della nostra città, Biella. Nati e cresciuti ai piedi delle Alpi certo non si poteva pensare ad un futuro lontano dalle montagne. Ecco, proprio le montagne, che sono state il sottofondo di ogni parte della vita, di decisioni importanti durante le varie passeggiate e di pensieri profondi guardando quell’orizzonte fatto di cime frastagliate e di nevai, sono, in parte, le protagoniste assolute anche di questo breve racconto.

Il telefono vibra e la notifica del messaggio WhatsApp appare sul display. “ok per le ferie, ho la settimana”.

Si comincia a pensare ai vari luoghi possibili, mi sono trasferito in Svizzera per lavoro e le montagne non mancano di certo, e allora vediamo vari possibili trekking da fare in queste mie “nuove zone”. Dalle previsioni meteo sembra bello e quindi comincio a spulciare i vari siti internet dei Gruppi Alpini e studiare i vari percorsi.

E di nuovo su WhatsApp: “E se anziché stare in Svizzera, ci facessimo un viaggetto all’avventura in tenda?”

Una settimana prima della partenza: mi trovo in un albergo a Mosca per lavoro e comincio a cercare qualche meta, dai vari racconti che trovo in internet, le Isole Lofoten sembrano la meta perfetta: campeggio libero, montagne, trekking, sole di mezzanotte e natura. Le previsioni meteo sono anche dalla nostra parte in quanto sembra che sarà sempre sereno.

“Gigi, dai, prenoto gli aerei, al resto ci pensiamo poi…” Detto, fatto. Sabato (tre giorni prima della partenza) tutti i voli sono prenotati e la Domenica anche la macchina (particolare fondamentale) è affittata.

Le Isole Lofoten sono, per gli amanti della natura, un autentico paradiso. Perché quindi non visitarlo avendo la libertà di scoprirlo dormendo dove si vuole e decidendo man mano dove andare?

Si prende il volo per Oslo e, successivamente, per Narvik…che l’avventura abbia inizio.

Già dall’aereo, osservando le cime a picco sull’oceano, si entra in un mondo fantastico dai panorami mozzafiato. Non mi stupirei vedessi correre dei dinosauri attraverso le foreste o le praterie che seguono i crinali della montagna, sembra di essere nella location del film “Jurassic Park”.

Presa la macchina a Narvik, decidiamo di fare un “tour de force” di quasi 6 ore, attraversando tutte le Lofoten fino alla punta più estrema, il paese di Å i Lofoten. E’ nel Guinness dei Primati per il suo nome corto, insieme ai paesi di “Y” ed “U”.

La strada, la mitica E10, che percorriamo, è un susseguirsi di curve che seguono la morfologia delle isole, la nostra Nissan Qashqai, dal tetto panoramico, ci fa godere ogni singolo kilometro. Ci si addentra nei vari isolotti tra ponti altissimi e gallerie sottomarine. Il villaggio di “ Å ” è piccolo, ma pieno di angoli belli da fotografare o anche solo da contemplare immersi nel silenzio profondo interrotto solamente dal garrito dei gabbiani.

Decidiamo di fermarci lì per la cosiddetta “notte”, si perché, in realtà, il sole non tramonta mai. Appena sopra il paesello vi è un promontorio a picco sul mare con una prateria che attornia un piccolo laghetto, circondato da montagne che si stagliano al di sopra di esso… il posto ideale per la piazzare la tenda. Il clima è fantastico e decidiamo di prepararci come prima cena una “cena gourmet” – linguine al pesto, speck dell’Alto Adige ed acciughe. E mentre si picchetta la tenda, si sente soltanto il cantare degli uccelli e l’infrangersi delle onde sul mare, mettiamo gli ultimi picchietto guardando un gruppo di nuvole danzare in vetta ad una montagna. Non c’è molta gente attorno a noi ma, del resto, ci sono così tante possibilità di campeggiare in tutte le Lofoten che non vi sono problemi di sovraffollamento.

Il giorno seguente decidiamo di andare a vedere il museo dello stoccafisso (pesce tipico della zona), ma lo troviamo chiuso. Ci inoltriamo quindi attraverso le varie stradine che si discostano dalla strada principale scoprendo posti fiabeschi: Reine è uno di questi. Parcheggiamo la macchina in una delle tante piazzole di sosta lungo la strada e decidiamo di “scalare” una montagnola per poter ammirare il panorama dall’alto. La peculiarità dei trekking alle Lofoten è che sono, così, spontanei, non necessariamente devi programmare qualcosa di specifico, ti metti lo zaino in spalla e cominci a camminare ed a salire il pendio, si raggiungeranno di certo mete mozzafiato. In cima alla montagna, difatti, tutto il paesino di Reine è sotto di noi con il suo piccolo porticciolo, i promotori e i vari ponti che collegano le isole. Siamo giunti in cima ad una montagnola che fa da cornice ad un grosso lago (Reinevatnet), da dove si possono ammirare gli isolotti delle Lofoten con le sue caratteristiche falesie.

Si scende a riprendere la macchina e di nuovo sulla E10…nuvole scendono dai crinali delle montagne, scopriamo laghi nascosti dietro angoli remoti, chiesette isolate dal mondo e vette illuminate da un sole che non tramonta mai…

Leggiamo che Henningsvaer è una perla incastonata tra un insieme di isolotti quasi tutti attaccati tra loro, il porto è dominato da una falesia a picco sul mare ed il campo da calcio, uno dei più a Nord del Mondo, rende tutto più affascinante (ovviamente in erba sintetica viste le temperature invernali…). Decidiamo di passare la notte qui. Piantiamo la tenda in una spiaggia poco prima del paesino, la spiaggia di Rørvikstranda… solo questa vale tutta la vacanza…

La sera (che comunque è illuminata a giorno) decidiamo pure di fare “serata” in un pub di Henningsvaer opportunamente oscurato con teli sulle vetrate per creare atmosfera “notturna”. Esperienza unica.

Decidiamo poi di spostarci verso Eggum per un trekking abbastanza facile fronte oceano per giungere ad uno dei tanti fari presenti nelle isolotte. Durante il trekking, guardando verso sinistra sembra di essere immersi in un ambiente austero ed alpino, verso destra, invece, sembra una passeggiata in riva al mare nel tardo pomeriggio. Sono queste, a mio parere, le Lofoten, isole dove si può “assaggiare” un po’ di tutto…dall’infrangersi delle onde sugli scogli al rumore delle cascate che dalla cima delle montagne si infrangono sul terreno, provocando forti emozioni e facendoti sentire piccolo piccolo.

I giorni passano via, le notti non sono mai presenti, le strade e stradine che si discostano dall’unica “superstrada” E10 ti fanno scoprire angoli tanto nascosti quanto stupendi; le spiagge e l’acqua sono di un colore talmente vivace che ti sembra di vedere cartoline in ogni direzione si poggi lo sguardo. Le Lofoten sono sicuramente un posto dove passare del tempo a contatto con la natura, alla scoperta delle bellezze del Pianeta e con le quali si instaura, fin da subito, un forte legame grazie alla loro bellezza. Spesso ci si sente attratti da un qualcosa di soggettivamente bello, le Lofoten sono oggettivamente isole che ti attirano a sé, la natura è pura e ci si rende conto di quanto sia fragile e magnifico quell’ecosistema. Potrei stare a disquisire sul rispetto che abbiamo del nostro unico Pianeta, ma non è questa l’occasione…

Questo è un breve racconto di due amici che si sono divertiti come se fossero tornati bambini, con la semplicità che solo un campeggio ti può dare in un posto tanto straordinario quanto irreale. Uno pensa ai vari sacrifici fatti durante l’anno per risparmiare qualche soldo da spendere in viaggi. Il vero valore dei sacrifici è ripagato dalla bellezza della natura e da posti come le Lofoten.

 

elbrus

…because it’s there…

Tutto iniziò un paio di anni fa sul tetto d’Africa. Uhuru Peak a 5’895 mslm. Questa punta fa parte delle blasonate Seven Summits, cioè le cime più alte di ciascun continente. Ed allora andiamo dai, Monte Elbrus, 5’645 mslm nella profonda Russia Caucasica al confine con la Georgia, cima più alta dell’Europa continentale. Ma proviamoci diversamente, stile completamente alpino, senza portatori, senza supporto, con la tenda e sopratutto all’avventura sulla mitica parete Nord.
Si atterra a Mineralnie Vody per poi andare al campo base a 2’600 m dopo tre ore di jeep, e, specie nell’ultima mezz’ora, in mezzo a panorami mozzafiato e strade sterrate tra spazi sconfinati e praterie incontaminate. Lasciati dalla jeep, il sole all’orizzonte si fa semper più basso mentre le mucche al pascolo ci osservano nel nostro andamento lento fatto di uno zaino da 25 kg sulle spalle ed uno da 15 kg poggiato sulla pancia.
Al calar del sole la prima cosa da fare è attraversare un fiume su un ponte tibetano (fatto con un tubo per l’acqua) e poter, finalmente, piazzare la tenda per la prima notte.
La nebbia sale, l’Elbrus non si fa ancora vedere, ceniamo immersi nelle nuvole alte del campo base per poi pernottare in tenda per la prima volta in questa avventura.
Ci attende un mattino fatto di dislivello e chilometri. L’idea è quella di salire direttamente al campo alto a 3’700 metri ma, da subito, si capisce che non si può fare quel dislivello con 40 kg sulle spalle. Decidiamo quindi di fare il Campo 1 a 3’100 metri su un pratone costeggiato da un fiume appena sotto le Mushroom Rocks (a metri 3’200).

Si piazza la tenda e, prima di cena, di certo non si può evitare di andare a fare una passeggiata defaticante alle Mushroom Rocks, delle pietre che dominano la piana fatte a forma di fungo! Paesaggio lunare…
La luce lascia il posto all’oscurità e così anche la tenda si tinge di colori dorati del tramonto fino a divenire completamente nera. Illuminati dalle sole lampade frontali, si sta ancora un po’ fuori a respirare l’aria frizzante del tramonto appena passato e si va a dormire pensando a quella punta tinta di bianco che ci domina dall’alto e che si fa desiderare.
Di notte, un lieve temporale rinfresca (anche se non ce ne sarebbe stato bisogno) l’atmosfera nella tenda ma, il giorno successivo, è fatto di un sole rosso fuoco che illumina le due cime (Est ed Ovest) di un arancione caldo anche se in cima ci sono venti a 50 km/h e diversi gradi sotto zero.

L’obiettivo del nuovo giorno è arrivare al Campo Alto (o Campo 2) di 3’700 metri. Dopo un’abbondante colazione si smonta la tenda e la si carica nello zaino. Così come il giorno precedente, i “giri” previsti sono due in quanto, l’attrezzatura da portare è tanta così come il, fondamentale, cibo.
Si inizia subito con una rampa da 100 metri di dislivello e pendenze importanti che poi si addolcisce leggermente, seguirà qualche chilometro in piano per poi arrivare a due rampe spaccagambe tra i 3’450 ed i 3’700 m. Si comincia a vedere il ghiacciaio, il vento prende sempre più forza e l’altitudine rende lo zaino ancora più pesante. Passo dopo passo si arriva a fatica al Campo 2 davanti al gigantesco ghiacciaio dell’Elbrus che si fa vedere in tutta la sua bellezza ed impressionante mole.

Si monta la tenda sulla pietraia antistante l’inizio del ghiacciaio e, dopo un pranzo consistente, si ritorna giù al Campo 1 per prendere la restante parte dell’attrezzatura lasciata lì al mattino. Le ore passano mentre, con passi lenti, si ripercorrono gli stessi sentieri fatti al mattino. Le spalle ed il collo cominciano a fare male ma si è consapevoli che il Campo 2 è la “base di partenza” per la cima d’Europa. Non ci saranno più doppi spostamenti in futuro. Alle 18:00 tutto è stato trasferito e si comincia a cucinare qualcosa con il fornelletto da campo e la bombola di gas. La calda polenta e funghi Piemontese, portata con tanta fatica proprio per quest’occasione, aiuta a scaldare il corpo e la mente durante la fresca serata e, la tisana fatta scaldando l’acqua del ghiacciaio, aiuta ad entrare nelle braccia di Morfeo.
Di notte si alza un forte vento ma è tipico della zona e la tenda, ben salda, sembra vincitrice della battaglia.

Il giorno seguente è il primo giorno di acclimatamento. Non si può pensare di conquistare una cima sopra i 5’000 metri senza neanche acclimatarsi, l’obiettivo è circa a 4’600 metri in un punto chiamato Lenze Rocks. Sono una serie di monoliti separati tra di loro da circa 400 metri di dislivello dove si è soliti acclimatarsi. Si sceglie la più bassa a circa 4’600 metri per poi proseguire leggermente più in alto a 4’700 a vedere la traccia su ghiacciaio da percorrere per la cima.
Il corpo risponde bene e la mente è in perenne estasi vedendo la cima così ”vicina” a poco più di 1’000 m di dislivello, che però significano circa altre 6 ore di cammino come minimo.
Si mangia qualcosa li e si contempla l’orizzonte, ciò aiuta anche il corpo ad abituarsi all’altezza e si fa amicizia con le altre persone che stanno condividendo questo sogno!
Si rientra al Campo 2 e si lasciano ad asciugare sulle pietre al sole la corda, piccozza e ramponi.
La partenza per la cima è solitamente in una finestra tra le 00:00 e le 03:00, parliamo con gli altri alpinisti che si stanno preparando per la salita notturna e condividiamo mille esperienze alpine, ceniamo e ci prepariamo per andare a dormire con l’immancabile tisana. È importante bere tanto e nutrirsi correttamente per avere energie e non soffrire del cosiddetto “mal di montagna”.
Le previsioni del tempo non promettono bene per i giorni seguenti ma abbiamo iniziato a capire che non sono sempre state esatte visto che l’Elbrus fa un po’ quello che vuole. Nel giro di 5 minuti si passa da un sole rovente ad un vento gelido, non decidiamo ancora quando sarà l’attacco alla vetta e preferiamo aspettare il giorno successivo il nuovo bollettino.

Alle 6:00 ci sveglia un sole splendente ed il vulcano é lí che ci guarda, potrebbe essere la sera giusta ma le previsioni per il mattino seguente sono pessime…, decidiamo di farci un trekking defaticante fino a 4’200 metri e mangiarci qualcosa li in cima, sicuramente male non fa! Tornando al Campo 2 parliamo anche con altri alpinisti, sono decisi a partire questa notte…noi prendiamo la stessa decisione!
Pranziamo ed andiamo subito in tenda a riposare perché la sveglia è alle ore 23:30. Arriva ora di cena ed arriva anche l’oscurità, le nuvole pomeridiane lasciano spazio ad un cielo strepitoso, ah potessi avere qui il mio telescopio…la via lattea abbraccia la cima Est e le stelle del firmamento ci osservano come piccole formiche intrappolate nei nostri sogni.
Dopo cena si torna a dormire puntando la sveglia qualche ora dopo…

…è ora…é questo il giorno per il quale si é aspettato tanto e si é fatta tanta fatica, si esce dalla tenda e gli occhi si abituano istantaneamente all’oscurità, il cielo stellato e scuro fa da contrasto con il bianco candido del ghiaccio secolare, colazione, si chiude la tenda, si attraversa la pietraia verso il ghiacciaio, si mettono i ramponi, si accendono il satellitare e la lampada frontale, ci si lega e si pianta la piccozza sul ghiaccio. Si parte!
Somo le 2 di notte e il vento gelido gela la faccia quando, dal satellitare, si sente il ‘bip’ che indica il superamento deo 4’000 metri, alzando la testa si cominciano a vedere le due cime gemelle che si coprono di nuvole…andiamo avanti…4’200 – 4’500, comincia ad albeggiare sulle cime tutte intorno, il vento si fa sempre più forte ed entrambe le cime dell’Elbrus sono coperta dalla bufera…il sole fa capolino sopra le nuvole stratificate e comincia ad illuminare, di un timido colore rosso-arancione, il ghiaccio che stiamo calpestando.
A 4’800 metri e dopo 4 ore di progressione su ghiaccio, il vento si fa troppo forte e diventa molto difficile proseguire anche perché, per arrivare in cima, mancherebbero ancora 6 ore di cammino e circa 4 ore per ritornare al Campo 2, le previsioni del tempo non sono per nulla buone ed é inutile proseguire verso il brutto tempo a quelle altitudini.
La visibilità é fondamentale e vediamo anche diversi gruppi in cordata, partiti qualche ora prima di noi, rinunciare. Si decide quindi di tornare indietro. Scendendo, il tempo non migliora affatto ed il freddo si fa sempre più pungente, il panorama però é fantastico e le nuvole non sono ancora arrivate sulle cime circostanti, é incredibile osservare tutte le montagne attorno all’Elbrus che, come in un grande abbraccio, lo circondano. Sui 4’000 – 4’200 m la temperatura quando diventa un po’ piú più sopportabile, decidiamo di sederci a contemplare il paesaggio per qualche minuto (complice anche un pó di stanchezza). Sono le 9 del mattino, il sole é alto e fa ”abbastanza” caldo, guardando verso le cime, la bufera continua a non lasciare tregua e pensiamo che la scelta é stata giusta anche perché il tempo sta peggiorando sempre di più.

Con calma, torniamo al Campo dove la nostra avventura sta volgendo al termine, avremmo ancora un giorno per tentare la vetta ma, una lievissima pioggia misto ghiaccio, comincia a cadere lieve e poi sempre più fitta, pioggia che rimarrà sopra le nostre teste per tutto il giorno successivo.
L’indomani decidiamo quindi di smontare la tenda per tornare nuovamente al Campo Base dove, una settimana prima, tutto é iniziato.

Sicuramente l’obiettivo era quello di arrivare sulla Cima d’Europa ma, si sa, che é la montagna a decidere quando farsi scalare e deve quindi essere rispettata. Questa esperienza é servita per conoscere l’ambiente e capire i ”ritmi” dell’Elbrus, si lascia questo fantastico paesaggio con negli occhi magnifici momenti di una fantastica avventura…arrivederci Elbrus e grazie per un’esperienza indimenticabile.

Greenland

…give me winter, give me dogs and you can keep the rest…

Groenlandia non è una meta, è uno stile di vita, non è un qualcosa da fotografare o osservare, è un qualcosa da vivere fino in fondo a tutta senza mezzi termini perchè, l’aria, il ghiaccio, l’atmosfera ovattata della neve ed il rumore degli iceberg che si rompono in mare, rimane dentro per la vita intera e, quando si chiudono gli occhi, affiorano così tanti ricordi tutti indelebili.

Partenza per Copenaghen e poi volo (il giorno dopo) per Kangerlussuaq con Air Greenland, cittadina di 500 abitanti dove vi è uno dei pochissimi aeroporti nel quale un aereo “grande” può atterrare. Si arriva e ci si immerge subito nel clima Groenlandese, aria pungente sottile, neve sulle cime (anche se Agosto pieno) e poi giusto quattro strade che portano nei vari ostelli. Dall’aeroporto di va diretti all’Old Camp, ostello poco fuori paese (è un eufemismo) con tutte le comodità. Camera caldissima, bagno in comune ma perfetto e cucina dove poter cucinare quello che si vuole e che si compra nel supermercato davanti all’aeroporto (bisogna fare veloci dopo che arriva l’aereo in quanto porta anche il rifornimento del supermercato!). Ci si mette comodi in hotel e poi via subito con le scarpe da trekking a vedersi intorno.

Il “grande fiordo” (Kangerlussuaq vuol proprio dire grande fiordo) ha una flora e fauna selvatica, le cime sono molto dolci e ci sono vari laghi attorno, l’affluente principale è un fiume abbastanza grande che arriva direttamente dalla calotta polare. Già, la calotta polare, come non andarci. La gita è definitivamente una delle più belle che uno può fare lì attorno, toccare con mano i ghiacci perenni di miliardi di anni dopo un bel trekking in spazi sconfinati in mezzo alla natura incontaminata e “potente”.

Dal paesino è molto facile organizzare queste escursioni, attraverso un fuoristrada, lungo una strada di circa 50 km verso l’interno, si passa attraverso il cosiddetto “deserto artico”, al ghiacciaio Russels (muro di ghiaccio su un fiume) fino ad arrivare al famoso alla Calotta Polare.Da lì in poi c’è solo ghiaccio o mare ghiacciato per migliaia di kilometri in ogni direzione. Poter pestare la superficie della calotta polare dei poli e fare trekking su di essa è qualcosa che fa venire i brividi solo a pensarci, una volta che si è fisicamente sopra, quando il vento gelido ti accarezza la faccia ed il ghiaccio sotto i piedi sfrigola, le sensazioni sono un misto di paura e mistero, scoprire con i propri sensi ogni centimetro quadrato di questo posto è indescrivibile.

Mangiarsi il classico panino dopo l’escursione sopra una duna di ghiaccio della calotta polare vale tutta la fatica per arrivare in questo posto! E’ bellissimo poter fare anche campeggio nei circa 50 km che separano la cittadina alla calotta polare ma ci vuole circa una settimana in più…sarà per la prossima volta. Si torna alla base e ci si rifocilla adeguatamente con i prelibati salmoni (non se ne sono mai mangiati di cosi buoni). Per queste escursioni è inutile alzarsi presto al mattino così come si farebbe in altre latitudini e longitudini in quanto il sole non tramonta mai (almeno ad Agosto) e quindi la luce è sempre presente (ogni tanto si rimane un po’ “sfasati” a forza di stare sempre alla luce del sole in ogni momento).

Si prende un altro aereo per arrivare ad Ilulissat (una perla), cittadina di circa 4500 abitanti patrimonio dell’Unesco, e non è difficile da capire! A parte il viaggio aereo bellissimo tra queste due cittadine dove si può osservare da ogni parte ghiaccio, oceano artico ed iceberg, appena atterrati si viene accolti da un mare di iceberg galleggianti più o meno vicini alla costa che rendono il paesaggio magico facendoti sentire piccolo piccolo nel mondo. Ilulissat in lingua groenlandese significa “gli iceberg” e da Ilulissat arrivano continuamente pezzi di ghiaccio dal ghiacciaio più grande del mondo (dopo l’Antartide) chiamato Sermeq. Ad Ilulissat bisogna prenotare per tempo perchè, essendo una delle più grandi città della zona si rischia che ogni posto sia pieno.

Un bell’appartamento all’ ”Ice Cap Appartment” con vista sul porto pieno di piccoli iceberg che si fanno largo tra le barche è quello che ci vuole e, dopo un ottimo pranzo, si parte all’avventura. Ilulissat è una città molto be strutturata e dotata di tutti i comfort, da non perdere la cena all’Hotel Fark a base di buffet in una palafitta sull’oceano pieno di iceberg dove si possono gustare ogni genere di cibarie groenlandesi, dall’orso polare, alla balena passando per l’halibut, salmone, foca ed altre squisitezze che solo lì possono essere mangiate.

Arriva la notte (si fa per dire) su Ilulissat e non può mancare l’andare al porto, prendere un peschereccio e salpare in mezzo agli iceberg mentre la luce del sole di mezzanotte li illumina in ogni sua sfaccettatura. Il paesaggio cambia continuamente attorno ai pilastri alti decine e decine di metri mentre Madre Natura li plasma in maniera continua con il vento e con le onde. Escursione a dir poco gelida ma, con un the caldo in mano, lo spettacolo è garantito. Le luci, le sfumature delle ombre e le sagome degli iceberg, se si chiudono gli occhi, rimangono impressi nella mente come un’incisione su pietra.

Al mattino ci si sveglia con tanta voglia di camminare e scoprire la natura incontaminata di questo posto, si opta quindi per un trekking zaino in spalla e provviste al seguito per i vari percorsi, blu rosso e giallo, che girano intorno ai fiordi a picco sull’oceano nei dintorni di Ilulissat. Questo trekking, secondo me, è uno dei più belli in quanto si possono toccare con mano la flora e la fauna della Groenlandia immersi in un paesaggio fiabesco e strepitoso.

Dove ci si gira si sente il rumore del ghiaccio degli iceberg che si frantuma in mare mentre i nostri piedi calpestano il permafrost tipico groenlandese e si mangia di fronte ad uno degli spettacoli più eccezionali che la natura può regalare. Dopo una giornata, faticosa ma molto appagante, non resta che tornare nell’appartamento per farsi qualcosa di caldo e meritatamente riposarsi anche perché il giorno dopo la Groenlandia darà il meglio di sé.

Solo una parola, Eqip Sermia! In una semplice parola è nascosto tutto il significato della Groenlandia come “modo di vivere”, è un qualcosa di fantastico che neanche una foto o un filmato può rendere l’idea. 80 km a nord di Ilulissat, dopo circa 6 ore di barca in mare aperto con gli iceberg di ogni genere e forma attorno, si arriva al ghiacciaio, un autentico muro di ghiaccio che cade continuamente in mare spinto dalle forze della calotta polare mentre attorno ad esso pesci, uccelli e ghiaccio convivono in un insieme di emozioni e rara bellezza. Non si riesce a staccare gli occhi da quel muro in continuo movimento, si è in barca, in mare aperto davanti alla calotta polare che riversa in mare quantità di ghiaccio enormi ogni ora, da sempre e per sempre…da brividi!

Dal porto di Ilulissat non può mancare qualche giorno nella famosa Disko Bay, e quindi, si prende un bell’aliscafo che letteralmente vola sul mare in mezzo agli iceberg con destinazione Qeqertarsuaq, una piccola cittadina di circa 1000 abitanti sull’isola di Disko, il principale porto di caccia alle balene della zona. I trekking nell’isola sono numerosi e c’è solo l’imbarazzo della scelta, la cittadina ha un mercato del pesce all’aperto ed un supermercato fornitissimo dove poter fare provviste. L’Hotel Disko fornisce camere dotate di tutti i comfort con cucina in comune ed è in centro (anche se stare in centro o in periferia cambia poco).

Il campo da calcio della cittadina è spesso pieno di persone che fanno “due tiri” e Qeqertarsuaq ospita anche l’avamposto dell’università di Copenaghen per la ricerca sui ghiacci ed il clima. E’ una cittadina fantastica dove potersi perdere tra i suoi fiordi ed i suoi paesaggi mozzafiato. E’ possibile fare ogni genere di escursione in quanto ogni sentiero è ben segnato e sono presenti anche piccole casette ogni tanto dove fermarsi a mangiare e bere (al sacco ovviamente). E’ molto famosa anche per avere, in cima alla sua omonima montagna, un ghiacciaio enorme dove poter provare la slitta trainata dai cani. Quando uno pensa alla Groenlandia pensa ad un posto inospitale senza nessun genere di servizio o altro.

La Groenlandia lascia invece qualcosa di incredibilmente legato nei tuoi pensieri, nei tuoi occhi, nel tuo respiro che non potrà mai essere dimenticato. Ogni singolo attimo è da godere profondamente, ciò che rimane nel cuore e nella testa è fatto di una magia potente quando è quest’isola tanto magica quando pericolosa che, per chi ama questo genere di natura incontaminata e paesaggi, non potrà mai dimenticare.

kilimanjaro

…Uhuru Peak, the Africa’s highest point…

PROLOGO
La stanchezza comincia a farsi sentire, siamo solo al Campo 3 (Horombo) a 3750 m, sono altezze alle quali siamo abituati visti i nostri su e giù per le Alpi, ma non è solo stanchezza è – cosa mi aspetterà domani? – adrenalina, preoccupazione, mai stato oltre i quattromila metri, solo la parola mi rende irrequieto.

“Ed allora proviamoci dai!” dico a Francesca, “vediamo fino a dove arriveremo”, il Kilimanjaro è lì davanti.

Siamo sulla cosiddetta Sella, a 4500 m, la cima del “Kili”, chiamato amichevolmente cosi per minimizzarlo nella mia mente, è lì. La posso toccare solamente allungando le braccia… ah no… la prospettiva mi inganna, mancano ancora tutto un giorno ed una notte di cammino.

Pole pole (piano piano nel linguaggio Swahili) arriviamo a Kibo – 4750 m. I giorni di acclimatamento sono andati bene, si mangia, si beve regolarmente, la forma è buona. Il bello deve ancora venire, è la quiete prima della tempesta, me lo sento.

Ore 17:00, “Francy mangia qualcosa e riposati che a mezzanotte si parte per la vetta”. E chi dorme a queste altezze. In branda lo sguardo va verso un buco nel muro da dove cerco di avvicinare la faccia per respirare un po’ di aria fredda ed ossigenata (poco), tentando di estraniarmi dal russare del koreano nella branda di fianco – ecco ci mancava pure questo che russa.

Ore 23:30, dormito niente, lo sapevo già – “Francy, hai dormito un po’?” – ok, ho visto la sua faccia…mi basta quello.

Mezzanotte, frontale accesa, scarponi stretti, vento freddo – adesso sono solo con i miei limiti – e si parte.

Notte fonda, 5400 m, crisi…troppo sonno…mi siedo su una pietra, alzo lo sguardo al cielo, la Croce del Sud guarda questo piccolo serpente di persone composto da debole luce delle frontali che tenta di salire: “Toh, ma Orione è al contrario qui”. Dai manca ancora tanto e fai che darti una mossa, penso, o forse dico, non ricordo.

Stella Point 5739 m, 7 ore di cammino. Foto? No, non ho le forze di tirare fuori la reflex dallo zaino, ah ma ho il cellulare in tasca, lo tiro fuori, scatto e via dentro subito nella giacca…si ricomincia ad arrancare…la punta la vedo, finalmente.

Ore 7:20, Uhuru Peak, 5895 m, ferragosto, albeggia, il sole rosso accecante sopra un mare di nuvole calmo e indifferente alla nostra impresa, è fatta, non c’è tempo per pensare, si scende…ma la testa rimane su.

Uno si chiede, perché mai il Kilimanjaro? Beh questo è il racconto di una settimana mitica e storica con divertimento, preoccupazioni e tanta fatica ma anche soddisfazione, gioia e felicità.

Scelta la meta – Uhuru Peak, 5’895 m – si cerca la via…MARANGU ROUTE, sei giorni di salita e discesa compresi di acclimatamento, la via perfetta, a mio modesto parere, ed il periodo perfetto: 11 – 16 Agosto 2016.

Giovedi 11 Agosto 2016: da un camioncino carico all’inverosimile di persone e di zaini da montagna con annesse patate, pollo, farina, acqua, bombola del gas e “lunch box” si arriva al famoso “Marangu Gate”, porta di accesso alla Marangu Route. Espletate le formalità e firme del caso si entra nella foresta, il paesaggio è spettacolare, una fittissima foresta con nel mezzo la traccia in terra battuta per arrivare al Campo 1 – Mandara Hut, 2’720 m. (Per chi è abituato come me nell’andare in giro per le Alpi sentendo fischi di marmotte e camosci, qui si incontrano le scimmie, non proprio quindi un tipico ambiente montano “classico”). Lungo i sentieri si possono incontrare le scimmie bianche e blu che osservano il nostro andare “pole-pole” (pian piano in Swahili). Il facile primo tratto fila via liscio in circa 3 ore dopo 8,2 km e 827 m di dislivello positivo. Si è perennemente immersi in un verde con la “V” maiuscola e in un silenzio rotto solo dai versi delle scimmie che, saltando da un albero all’altro, fanno compagnia. Il Mandara Hut ha tutti i comfort, la parola “Hut” (in inglese rifugio) non è del tutto appropriata, si potrebbe chiamare Mandara Hotel. Questa definizione vale per tutti gli “Huts” incontrati lungo il percorso. Cena impeccabile preparata dal cuoco nella parte comune del rifugio dove si comincia anche a fare amicizia con tutti quelli, chi sale e chi scende, che stanno condividendo questa avventura. Dopo cena, giretto per qualche foto e via a nanna. Non resta che distendere il sacco a pelo e farsi una bella dormita di 10 ore. I rumori notturni sono abbastanza inquietanti, si spera che la pesante porta di legno divisorio tra la branda e la “giungla” faccia il suo dovere. Si spegne la frontale e si comincia a pensare al giorno successivo.

Venerdi 12 Agosto 2016: colazione e poi alle 7:43 partenza per una nuova camminata verso il Campo 2 -Horombo Hut – 3’750 m, (denominato sarcasticamente “Amsterdam Airport” dalla guida, dopo si capirà il perché….). Ci si lascia la foresta alle spalle, la vegetazione si fa sempre più rada, e ci si addentra nella brughiera del Kili. Tempo permettendo si comincia ad intravedere la cima del Kilimanjaro e del Mawenzi (altra bell’imponente vetta di 5000 e fischia metri, 5’149 m per la precisione). 14,4 km e 1030 m di dislivello positivo portano, dopo circa 5 ore di cammino, fino al crocevia di questa route, l’Horombo Hut. Qui c’è gente che sale, che scende e che si acclimata, gente dappertutto (Amsterdam Airport…). Firmato il registro di arrivo si entra nuovamente nella tipica casetta dove all’interno vi è la propria branda per riposarsi un po’ prima del solito the con i biscotti e popcorn e un giretto intorno fatto di foto, conoscenze di persone squisite e cena molto presto. Per chi fa solo 5 giorni di cammino, meglio andare a dormire in quanto dal giorno dopo farà sul serio (non consiglio di fare solo 5 giorni in quanto l’acclimatamento è FONDAMENTALE per raggiungere la vetta) mentre per chi fa 6 giorni può anche stare alzato di più a raccontarsela con tutti gli altri.

Sabato 13 Agosto 2016: giornata di acclimatamento. Solitamente si parte dall’Horombo e si va alla Zebra Rock, roccia dai colori zebrati poco sopra i fatidici quattromila (4’000 m). Di comune accordo con la guida, superata la Zebra Rock, si può anche decidere di proseguire fino ad un punto panoramico sulla famosa “Sella” (The Saddle) del Kili a circa 4’350 m. Il kili a sinistra, il Mawenzi a destra, pieno deserto alpino (si dirà così anche se siamo sul Kilimanjaro?) e l’aria sottile dei quattromila. “Alla grande!”. Sul dorso della sella si può vedere molto il lontananza il tanto agognato Campo 3 – Kibo Hut, 4’750 m e tutta la dorsale che dal Mawenzi corre fino al Kili, da dove poi si impenna verso la vetta. In poco meno di 4 ore si sale e si scende. 11,3 km e 853 m di dislivello accompagnano la fondamentale giornata di acclimatamento. In realtà l’acclimatamento è costante da quando si parte dalla base della route, ma un giorno e notte intera in più all’Horombo è, secondo me, molto importante per la buona riuscita della spedizione. Ho visto gente non arrivare in cima o arrivaci stremata solamente perché l’ha presa “troppo veloce”. Si torna all’Horombo per il meritato riposo pensando alle infinite prossime 2 giornate…e nottate!

Domenica 14 Agosto 2016: da qui non c’è più tempo per scherzare, non c’è più tempo per riprendersi e non c’è più tempo per esagerare. C’è solo tempo per salire e prendere la vetta o tornare a casa. Ore 8:15, colazione fatta, si punta il Campo 3 – Kibo Hut, 4’750 m. Deserto alpino, si è perennemente sopra i 4’000 m. Si passa un cartello chimerico indicante “The last water point” e ci si addentra nella “Sella”. E’ un immenso falsopiano che punta dritto verso il Kilimanjaro, la montagna rimarrà sempre davanti a noi lungo tutto il cammino da qui in poi aspettandoci con la sua mole impressionante. Si mangia in una specie di zona pic-nic a circa 4’400 m e poi si sale nuovamente fino a fare 10,1 km e 1231 m di dislivello positivo in poco meno di 6 ore. A queste altezze si sente ogni minimo sforzo e la fatica anche dei giorni precedenti può cominciare a farsi sentire. Arrivati al Kibo verso le 14:00 sotto uno splendido sole, si cerca di riposare un po’ prima del the e poi della successiva cena. Qui si comincia a non aver più tanta fame vista l’altitudine ed anche l’andare in bagno richiede un po’ di fatica. Ad ogni modo ci si cerca di riposare come meglio si può perché poche ore dopo avrà inizio veramente una faticaccia.

Lunedi 15 Agosto 2016 – Ferragosto: Ore 00:14, si è consapevoli che mancano “solamente” quasi 1’200 m alla cima, ma si è anche consapevoli che bisogna superare molti ostacoli, in primis i propri limiti, pensieri e preoccupazioni. Si accende la frontale e si parte, 4’810 m altezza chiave per chi, come me, abita sulle Alpi (punto più alto d’Europa, cima del Monte Bianco). Si sale ancora, verso altitudini mai frequentate prima, la volta celeste (australe) ci guarda e la mente e le gambe girano bene. 5’000…5’400…5’685 m – Gilman’s Point, primo punto cruciale, superata la prima, ed unica, IMMENSA e FATICOSSISIMA rampa di quasi 1000 m di dislivello in poco meno di 3 km. Che si fa? Se si vuole scendere da qui è l’ideale, no dai si sale ancora un po’ e poi si vedrà. 5’756 m – Stella Point, presa anche questa, dai non ci si può fermare adesso, mancano poco più di 150 m alla vetta…ma si sentono TUTTI! Alle 7:20 è vetta – cima del Kilimanjaro, 5’895 m, Uhuru Peak, il punto più alto del continente Africano e una delle gloriose Seven Summits. Poco più di 6 km e 1’447 m di dislivello positivo, una rampa infinita che culmina con Uhuru Peak! L’alba è da brividi, così come il ghiacciaio tutto intorno, manca ancora tanto alla fine della giornata, meglio scendere….anche la discesa si fa sentire. Dopo altrettanti km si è di nuovo al Kibo ma bisogna proseguire, dopo un veloce pranzo, verso Horombo. Saranno circa 20,6 km e 1’617 m di dislivello positivo in totale perennemente sopra i 5’000 m, il tutto dura la bellezza di poco meno di 15 ore. La stanchezza all’Horombo è giustificata e quindi, cena al volo e nanna a ricordare la meraviglia appena vissuta.

Martedi 16 Agosto 2016: ultimo giorno, dall’Horombo giù fino al Marangu Gate, è possibile fare una piccola deviazione per andare a visitare il cratere Maundi a 2’772 m, è lungo il sentiero e merita visitarlo. Altri 21 km con 317 m di dislivello positivo, è tutto in discesa, cosa che non è a dire il vero sempre positiva per le gambe ormai abbastanza stanche. Dopo poco meno di 6 h si arriva al Marangu Gate e si ritira l’attestato di arrivo in vetta con annessi souvenir.

85,6 km in totale, 5’921 metri di dislivello positivo, 4 giorni, 23 ore, 3 minuti e 56 secondi di camminata. Uhuru Peak a 5’895 m raggiunto. Uno si chiede, perché mai il Kilimanjaro? Perché tutto questo è stato STUPENDO.

Beh, io penso che le emozioni offerte dalle Svalbard non siano solamente paesaggistiche e naturalistiche ma siano soprattutto “interiori”, per ciò che ti lasciano dentro. Penso che nella vita di ciascuno di noi, ci sia spazio per cose inutili e per cose molto utili, c’è chi ritiene utile avere “la materia” a portata di mano e chi ritiene utile sapere che, un viaggio, possa cambiare la sua personalità, il suo modo di vedere le cose arricchendosi di un’esperienza che non sia solamente materiale ma che vada ben oltre.
Questo per me sono state le Svalbard, fatte di paesaggi stupendi e pendii immacolati ma soprattutto fatte in solitaria, vuoi per i casi della vita, vuoi per scelte, vuoi per destino o vuoi perché doveva proprio succedere così.

E’ un tipo di viaggio particolare, soprattutto per chi, come me, è amante della natura, dei posti incontaminati e del selvaggio, non è una meta “facile”, bisogna entrare nello spirito avventuriero perché, appena atterrati, le Svalbard ti catapultano in un mondo completamente sconosciuto, dove il quotidiano e la visione della vita nel day-by-day sono distorti, dove se non passa il pullman e rischi di rimanere all’aperto è una faccenda seria, dove non si può andare a fare un’escursione a piedi, rigorosamente con guida, senza il fucile, il lanciarazzi e la pistola.
Già sull’aereo che porta a Longyearbyen, cominciano le emozioni, in quanto, alle ore 00:45, quando si scorgono le cime nevose e frastagliate delle montagne avvolte da una luce di pieno giorno, ciò che si pensa è “ma dove sono capitato?”. Si è partiti da Oslo che stava imbrunendo e, dopo poco più di un paio d’ore, è di nuovo pieno giorno.
Il capitano dell’aereo comunica di allacciare le cinture, si sta atterrando a Longyearbyen, agli antipodi del globo, nel grande nord, a poco meno di un migliaio di kilometri dal Polo, in un gioiello incastonato tra il settantacinquesimo e l’ottantunesimo parallelo. Lontani da tutto, e la bellezza è proprio lì.

Non voglio narrare delle gite o delle escursioni effettuate, voglio raccontare della loro espressività, dello scricchiolio del ghiaccio sotto i ramponi, del sapore del vento gelido in vetta, del volo degli uccelli inseguendo la scia della barca, dello sbuffo delle balene, della bibita al pub e del silenzio tutto attorno a sé fatto per ascoltare i propri pensieri, sé stessi. Ed è qui che esce ciò che si è dentro, si sente solo la propria voce mescolata all’abbaiare dei cani, al suono delle onde del mare che si infrangono sulla costa, alla pioggia che ogni tanto ti bagna di goccioline gelide la faccia. Guardi in alto e perdi il tuo sguardo nell’orizzonte e pensi: “è proprio questo che cercavo”.

Il viaggio inizia ancora prima di prendere l’aereo, documentandosi su internet, con una mappa sulla scrivania, con una tazza di thè, con qualche briciola di biscotto sulla tastiera e con carta e penna. Lessi su internet, nel mio girovagare, una bella battuta: “ho provato a cercare le Svalbard nel mappamondo ma non le ho trovate perché erano coperte dal perno!”.
A mio modesto modo di vedere è proprio così, sono posti nei quali non ci puoi finire per caso, non ci si può fare un week end lungo, sono posti che devi assaporare e nei quali vuoi andare perché ti piace l’avventura e la natura più incontaminata, selvaggia.

Con la compagnia della macchina fotografica ho provato, sperando di esserci riuscito, ad immortalare le emozioni e gli scorci che più mi impressionavano anche se, in realtà, ogni angolo, ogni picco, ogni fiordo, sotto ogni condizione di luce, creava interessanti prospettive.

Ho cominciato a sentir parlare delle Svalbard durante un viaggio in Groenlandia qualche anno fa, mi hanno incuriosito i racconti delle varie persone con le quali ho parlato ed, incuriosito, ho cominciato a pensare seriamente ad una vacanza in quelle zone. Spinto da uno spirito avventuroso fatto di zaino in spalla e macchina fotografica al collo, ho prenotato, durante una calda mattinata estiva, un volo Milano – Longyearbyen (con svariati scali). L’insicurezza era tanta specialmente perché, un viaggio del genere, affrontato da solo, non era sicuramente il massimo, ho invece scoperto lì che, anche altri “avventurieri”, come me, provenienti da altre parti del mondo, avevano avuto la stessa idea.

Luce, silenzio, ululato dei cani e sussurro del vento tra le finestre del mio ostello o nei rifugi, sono ciò che mi ha accompagnato durante l’intera vacanza. Penso che la natura sappia dare molto alle persone che sanno coglierne le varie sfaccettature, non sono di certo una persona poetica, particolarmente sensibile o capace di esprimere emozioni meglio di altri, sono una persona normale a cui piace godere di ciò che la natura può dare. Penso di esserne stato capace, andando alla scoperta di stupendi posti in barca, a piedi o con gli sci, ho respirato ciò che le Svalbard mi volevano dire.
Come l’abbandono più completo di Pyramiden, cittadina russa capace, con il suo niente, di riempire gli sguardi di chi la osserva, sguardi stupiti da quanto si possa, per business, progresso e politica, alzare l’asticella, ma anche impressionati nell’immaginare le condizioni di lavoro del migliaio di persone, disperse, in questo remoto angolo di Terra completamente alla luce del sole per sei mesi e completamente al buio per altrettanti sei. Cittadina creata con l’intento di far notare al mondo quanto l’URSS fosse potente ed in grado di progredire anche in zone completamente inospitali.

L’abbandono di Pyramiden lascia il posto alle selvagge vette Nordenskjøldtoppen e Trollsteinen, lascia il posto ai ghiacciai a picco sul mare come quelli nel Nordenskiold.
Lascia il posto ad un rifugio nel bel mezzo di monti innevati dove, le coccole dell’husky groenlandese, sono l’unica tua compagnia nel giro di chilometri e chilometri, lascia il posto ad un sole che non ha voglia di tramontare.

Flora e fauna uniti in un’unica danza capace di immergere il viaggiatore all’interno di un perenne documentario, le Svalbard sono una meta capace di emozionare anche semplicemente guardandole senza fare nulla, l’emozione è l’ascoltare ciò che hanno da dirti attraverso i loro respiri.

Ho conosciuto molte persone lungo il mio girovagare, persone vere con le guance rosse dal freddo che, infreddolite, o all’interno dei negozi, sapevano consigliarmi questo o quello più consono alle mie esigenze, ragazzi e ragazze che, studiando per diventare guide o scienziati, si chiedevano come sarebbe stato il loro primo inverno completamente al buio. In ogni discorso, in ogni parola, in ogni scambio di idee, c’era la consapevolezza di essere in un mondo magico dove, convivendo con l’ambiente, le persone si sono create una loro identità fatta di un piccolo negozio di parrucchiere, di un paio di pub dove alle 19:00 chiudevano le tende per fare sembrare che fosse sera, di un supermercato pieno di ogni cosa.

Racchiudere in poche righe ciò che un normale ragazzo ha provato non è semplice, l’atmosfera, le fotografie, le sensazioni, le emozioni delle scalate, tutte realtà vissute nel profondo dell’anima con la consapevolezza che, questo arcipelago nel bel mezzo dell’Oceano Artico, fa parte di tutti noi ed è lì per dimostrare che la natura, pur facendole del male ogni giorno, è pronta a stupirci con la sua potenza ed immensa, semplice, smisurata bellezza.